Cacca di montagna
Dei “bisogni” che accomunano gli amanti delle vette.

Non è un tema molto frequentato, quello della cacca in montagna. Al massimo si cita il classico pestone in pieno sulla torta fresca di vacca d’alpeggio, che ci porta fortuna. Nei racconti eroici e nei libri patinati di avventure alpine non si parla quasi mai di come e di dove si “va alla toilette”. E’ probabile che ciò dipenda dal fatto che la toilette non è facilmente praticabile, specie sulla parete nord del Grand Capucin, e se ci fosse, installata dagli alpini di una qualche intraprendente pro-loco, sarebbe sicuramente già occupata. Eppure è un argomento così suggestivo, così foriero di ricordi… Avevo quattordici anni e mio padre mi portò in Marmolada. Sissignori, con tanto di corda e ramponi (forgiati a mano, altro che titanio !) e ferrata in cresta fino in cima. Il mio primo tremila ! Dopo una bella ronfata ristoratrice mi svegliai che stava nevicando di brutto. Il tempo era cambiato, eravamo in mezzo alle nubi, anche se si era di mezz’agosto. Bisognava sgombrare in fretta, prima che la neve coprisse i crepacci del ghiacciaio verso il Fedaia. Prima di scendere a valle sentivo l’esigenza di andare in quel posticino. Nei primi anni ’70, come in molte cascine di pianura, in molti rifugi la “toilette” era ancora fuori, open air, e nel caso che mi riguardava si raggiungeva con attenzione un baraccotto di legno e lamiera ai bordi del ghiacciaio, che – si raccontava con una certa soggezione – dava proprio sulla famosa parete Sud. Mi accoccolai dove si doveva, vagamente preoccupato di poter colpire con proiettili organici sottostanti cordate di fortissimi scalatori dai nomi altisonanti. Il vento fischiava tra le fessure ed i cavi che tenevano baracca e rifugio. La neve si accumulava di fuori ed alcuni fiocchi infiltrati si scioglievano sulle mie parti tiepide … Momenti come quelli non te li scordi più !
Nello zaino ci sta di tutto, dal cavatappi alle calze di ricambio, ma è normale dimenticare quel rotolino di carta, così comodo alla bisogna ! Allora è giocoforza sperimentare con piglio ecologico la morbidezza delle foglie disponibili : la scelta va dai grandi foglioni verdi di simil-zucca che cresce lungo i rii, coperti di una morbida peluria vellutata, fino alla malva (foglie più piccole, ma aromatiche!), ai più popolari ciuffi di erba secca. Parimenti importante è la scelta del posto adatto : deve essere appartato quanto basta, non troppo in pendenza, esente da arbusti spinosi e assolutamente deserto. Un bel panorama aiuta, facilita i movimenti nel profondo dell’anima e del corpo. Ma attenzione a tendere sempre l’orecchio ! Non è infrequente essere costretti a fughe precipitose nel bel mezzo dell’azione dopo essersi accorti di aver calato le braghe appena dietro una comitiva oratoriana guidata da un gruppo di agguerrite suore bergamasche …
Ma anche questi intermezzi, nelle bel mezzo delle avventure di un camminatore, fanno parte della vita. Siam fatti di carne e di sangue, e di queste piccole cose. Ci si rialza più leggeri, e non solo in senso metafisico : l’occhietto vispo e lucido (i piccoli sforzi muscolari fanno lacrimare… ), la pancia in pace con il mondo, la prospettiva di poter continuare, la sensazione di aver fatto una piccola cosa giusta. E’ l’unico momento in cui calare le braghe non significa sconfitta, ed uno dei pochi movimenti di liberazione che raggiungono sicuro successo !
Marco Simi
Marco Simi, 08/04/2003