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Ultima Thule. Il Luogo Ideale della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio. Come lo Shangri-la delle popolazioni Himalayane o la Valle Perduta dei Walser. Potrebbe essere anche solo la collina dietro casa. Ma per ognuno è il luogo dove si desidera tornare.
Noi veniamo di lì: thuler.

Pierluigi dalla Valgrande

Tre giorni in Val Grande, da solo.

Primo giorno

La scoperta Nella gola dell'Arca (Giugno 1994)


L'idea mi è venuta qualche tempo fa, quando tra amici si parlava di montagna e qualcuno raccontava di un posto non lontano ma selvaggio, solitario e difficilmente accessibile. Solo per attraversare quella valle occorrono più giorni, diceva, si dorme nelle baite o sotto le stelle. Non ci va quasi nessuno.
Quelle voci avevano subito solleticato il mio spirito d'avventura e così ho deciso di andare e di scrivere un diario.

Eccolo.

Legnano, alla stazione.

Attendo il treno per Mergozzo nella frettolosa confusione della stazione di periferia e guardo un ritaglio di cielo. Il colore è grigio, con qualche sprazzo pallido d'azzurro. Cielo incerto, umore incerto.
Mi sento già stanco. Guardo gli altri, la ressa di pendolari per Milano: loro fanno anche oggi quello che fanno tutti i giorni.
Io no.
Io no, fortunato tra molti! Fortunato davvero?
Provo in un angolo del cuore un dubbio, un vago senso d'invidia, una voglia di solite cose. Cosa cerco? Perché lo faccio?

In treno.

Lago plumbeo a destra. Monti plumbei più avanti.
Esco dal torpore indotto dal rollio delle rotaie e con me si desta lo spirito d'avventura. La sfida è aperta, attendo con ansia di mettermi in cammino.

Bracchio di Mergozzo (m 310)

Le ultime case abitate. Rumori già montani, scrosci d'acqua da qualche parte, vicine alture rannuvolate ed ostili.

In un bel capitello c'è un ingenuo affresco, una Madonna che sanguina dalla fronte ferita ed offre il seno nudo al Bambino. Sotto si legge una scritta d'antica sapienza: "In gremio matris sedet sapientia patris". E' qualcosa che non comprendo.

Sopra al paese incontro un bivio: prendo a destra per Boscopiano, nome che mi ricorda le saghe di Tolkien e mi mette di buon umore. Il sentiero, bello davvero come un'opera dei nani, corre in lieve salita nel bosco di grandi castagni. E' lastricato con solide piode infisse nel terreno, è spesso affiancato da muretti di sassi, supera le profonde incisioni dei ruscelli su antichi ponti e visita le antiche soglie di case dimenticate.
Raggiunte le baite di Boscopiano, mi fermo per scoprirmi. Il tempo è afoso. Già sento palpabile la solitudine, accentuata da rumori della valle ormai lontani: treno, cava, sega, cani. Vicino solo uccelli, acqua, foglie.

Il sentiero prosegue ora più ripido e selvatico nel bosco fitto e vario, fino a sbucare sulla strada che porta al Rifugio Fantoli, in località Erfo (m 662). Qui un curioso capitello, pieno di fiori di campo rinsecchiti ed altri di plastica polverosa, protegge l'immagine di una Madonna con narcisi. Vicino, poco leggibile su una tavoletta scrostata, è narrata una candida leggenda.

"Questa è la dolorosa storia di una famiglia semplice, la semplicità di chi lavora la terra, fila e tesse le sue vesti, abituata al cielo azzurro, alle montagne ed al gregge di pecore… …il bambino più piccolo è nella culla nel prato e piange per la fame. La mamma entra in casa per preparare il latte, quando, fulminea, un'aquila lo rapisce. E' il mese di Maggio e quella notte si nota uno strano fenomeno: i prati dell'Alpe sono cosparsi di stelle lucenti come il cielo sereno! Al mattino accorrono i pastori e vedono che sono sbocciati, a migliaia, fiori bianchi e profumati, mai visti prima, ma che sbocceranno ogni anno in questo mese, i bellissimi narcisi. … l'aquila sarà punita restando ghermita, lei ghermitrice, in una tagliola e morirà di freddo."

Dopo Erfo, un buon sentiero con tratti panoramici, segnato col giallo, permette di evitare la strada asfaltata e di raggiungere l'Alpe Ompio ed il Rifugio che è ancora chiuso.

Rifugio Fantoli (m 1100)

Sosto in contemplazione: grande davanti a me si apre il panorama sul lago, alti sopra di me volano i falchi, muta come un presagio, dietro al monte annuvolato e dentro di me, giace la Val Grande.
Esito a dare l'addio a questi sentieri ben tracciati: è come affrontare il mare aperto con una barchetta, è come dichiararsi ad un'amata temendo il rifiuto. Sono però in buona forma, mangio fichi secchi e mi avvio senza fretta. Il tempo forse migliora.

In Val Grande.

Salgo nel rado bosco di betulle, ancora qualche segno giallo mi rassicura e presto raggiungo il dosso: sotto di me, profonda e verde, la bassa Val Grande!

Appena superato il crinale mi trovo in un mondo nuovo, in un bosco sconfinato di faggi rigogliosi. Il vento del gran silenzio mi avvolge come un sudario, soltanto laggiù, come un'eco lontana di battaglia, risuona potente il fiume.

Non vedo più alcun segno di vernice, l'attenzione si concentra sulla traccia del sentiero. Strana traccia. Ora esigua ed impercettibile tra le erbe o le vecchie foglie che coprono il terreno, ora sorprendentemente ben fatta, con enormi gradini di pietra e sostenuta da solidi muretti a secco. Ancora una volta m'immergo nella magica atmosfera dei romanzi fantastici ed immagino che siano opere del popolo sfuggente dei nani, fatte per oscuri scopi.

Giungo ad un nuovo dosso, ad un panorama nuovo: a nord ora si vede la valle che s'incunea lontano nell'umida foschia, tra rocce aspre ed ostili. Mi fermo e guardo perplesso.
E' così bello quassù! Devo proprio scendere fin laggiù, a quelle acque spumeggianti che intravedo nell'impenetrabile ed angusta fessura?

Il percorso, in effetti, sembra lungo e difficile ma, se alzo gli occhi alla ricerca di un passaggio più alto, vedo i dirupi scabrosi della Cima Corte Lorenzo e dei Corni di Nibbio che mi tolgono ogni dubbio: la strada è obbligata. Proseguo quindi sul sentiero che per ora non tradisce, ben tracciato tra l'erba e le foglie, con qualche breve salita e molte lievi discese che mettono allegria.

Ai sensi attenti si svelano tutti assieme i mille sapori del mondo. Annuso: odori di terra, di foglie, di umori oscuri e funghi. Guardo: una farfalla mai vista, piccola e bellissima, gialla coi puntini scuri.

Ascolto: il cuculo scandisce un tempo dilatato come il tic tac di uno strano orologio.

Corte Buè (m 888)

Imprevisto nel gran bosco, dopo un'ora di cammino, appare il Corte Buè, magico gruppo di case sparso su una costa erbosa, sembra un villaggio preistorico ricostruito.

Avvicinandosi il sentiero si sperde in tante tracce ingannevoli ed infine mi trovo a salire alle case aprendomi la strada tra ortiche giganti, rovi e felci. Tutto attorno spira un alito impercettibile di vita, quasi il presagio di una presenza impossibile.

Rumori di rettili, ragni.

Sono i resti di una civiltà perduta, un selvatico miscuglio di ruderi, case e stalle. In cima alla costa c'è un'edicola con tre affreschi rovinati, alcuni ceri consunti, fiori di plastica sbiaditi. Uno scassato quadretto, struggente di vita passata e quasi indecifrabile, ricorda una Grazia Ricevuta chissà da chi, chissà perché. Vane speranze umane in un mondo senza tempo.

Qui mi fermo a mangiare.

Qui il silenzio mi assale con violenza improvvisa ed inaspettata e mi dà la misura della mia solitudine.
Mangio tra dubbi ed incertezze. Assaporo lentamente il cibo e l'acqua gelida cercandone il gusto. Provo a contare il numero delle baite, saranno almeno trenta o quaranta. Mi perdo…
…mi guardo attorno senza pensare a nulla: profonde le valli, lontani i dirupi, incombente il cielo.
L'io, senza relazioni, si dissolve totalmente. Una nuova dimensione mi avvolge, i millenni si annullano in un presente sconfinato ed il mio corpo si dilata nell'immensità circostante… Dove sono? Chi sono?

Guardo ancora il solco ostile della Valle sotto di me, ascolto il sussurro lontano e potente del fiume e mi riscuoto: devo andare.

Troverò il sentiero?

Perso nel bosco!

Riparto dopo essermi messo le alte ghette, fastidiose per il caldo ma utili per le ortiche ed eventuali vipere. Devo essere sceso troppo e non riesco a trovare la traccia che riprende dopo il grande corte.
Torno indietro.
Cerco da ogni lato tra rovi ed ortiche, indovinando i percorsi degli antichi abitatori, infine provo a scendere ancora, verso il Rio Buè che scava una valletta, Presto questo si getta da un dirupo, con una viscida e ripidissima "cascata a scivolo", verso un baratro impressionante.
Scendere è impossibile.
Risalgo a sinistra su tracce improbabili, trovo altre rovine invase dalla vegetazione, salgo ancora prossimo alla resa, ora più a destra… Qualcosa che sembra un sentiero! Proviamo…

Traccia variabile, piccolo guado, di nuovo le "opere dei nani"! Il sentiero è buono. Ho perso più di un'ora ma gusto il trionfo. Il primo tentativo di respingermi dalla Val Grande è fallito, avanti!


Ho le gambe tutte graffiate e rosse per le ortiche.

Vedo ora, in alto, il dirupo al quale mi ero avvicinato sulla "cascata a scivolo": un lastrone di rocce strapiombanti su una profonda forra. Non ne sarei uscito! Poco sopra, su un fazzoletto di prato, che da qui sembra appeso nel vuoto, indicibilmente isolato il Corte Buè. Ancora mi chiedo, chi l'avrà costruito? Ha il fascino delle piramidi Maya. Bosco, felci, erbe, acque gelide tra i rododendri.
Spesso incontro con ammirazione le grandi pietre di sostegno agli arditi passaggi del sentiero, opera della scomparsa civiltà di Buè.

Il cielo metallico ogni tanto si apre lasciando intravedere alte rocce, lontane ed inospitali.


L'afa è pesante.
Tacciono anche gli uccelli.


Solo il fiume, nella valle profonda, rumoreggia più vicino. Tanto più scendo, tanto più sembra un grande, terribile ed infido drago, rintanato tra orridi e gole.
Poi la vedremo!


Mi perdo ancora un poco in un bosco di betulle, discendo a naso un grande pascolo incolto, abbagliante del bianco inebriante dei narcisi in piena fioritura e raggiungo questa decina di baite che non sembrano del tutto abbandonate.

Un povero orto, legna tagliata, porte chiuse… nessuno. Soltanto, lontano, il campanaccio di una capra: rumore di civiltà!
E' l'Alpe Scellina.


Improvviso, brillante sul vecchio muro, il segno bianco e rosso di un sentiero, visione insperata. Un bivio: a destra la pianura, a sinistra la valle ignota.
Rassicurato dai segni ricomparsi accetto la sfida e scendo con passo rilassato e sereno verso l'avventura. Il fiume ringhia ora più forte e vicino, gonfio delle piogge recenti e delle nevi, ancora abbondanti negli alti valloni, che si sciolgono nel caldo estivo. Offre spesso spettacolari colpi d'occhio sulle sue acque smeraldine.

Ore 17,15: al Ponte di Velina (m 470)

Eccomi finalmente al fiume.
ccomi al cospetto del ponte che lo doma, slanciato tra le pareti verticali di una forra dantesca. E' un'eccelsa opera dei nani della valle, che supera un baratro profondo almeno venti metri con un arco ardito, tutto in pietra grezza. Sotto scorre nell'ombra l'acqua più limpida e dal colore più delicato che si possa immaginare.

L'impressione è tanto maggiore quando si pensa al povero sentiero cui serve tutto ciò. Per un attimo m'illudo di poter entrare in Val Grande su una comoda e ben lastricata mulattiera e attraverso il ponte. Ben presto però devo dare addio con nostalgia ai segni bianchi e rossi che vanno in salita verso Cicogna.
Devo rassegnarmi a cercare la via sulla sponda destra del fiume, dove vedo solo pareti a picco, enormi macigni e cascate. Non un segno, non una traccia, nell'orrida valle. Preoccupato mi concedo una pausa di riflessione, mangio un pezzo di cioccolato ed intacco la piccola riserva di Gin.

Appena mi sento rinfrancato parto cercando la traccia tra i macigni, ma dopo meno di mezz'ora sono ad un punto morto: altri segni di passaggio non se ne vedono. Ho seguito forse gli strani percorsi dei pescatori, arrampicandomi tra le rocce a strapiombo sulle acque profonde. Ho smosso un sasso che è caduto nel vuoto: il lungo silenzio, prima del sordo "spluff", mi ha tagliato le gambe.
Ho osato forse più di quanto la prudenza consigliasse. Non mi resta che tornare indietro per il difficile percorso fatto.

Tiro fuori il cordino e, assicurandomi ad un arbusto, prima calo lo zaino e poi me stesso.

Ore 18,30: di nuovo al ponte. Il tentativo di entrare in Val Grande risalendo il corso del fiume sembra finire qui. La via che ho tentato, anche vista da qui, appare temeraria ed altre non ne vedo. Sono scoraggiato ed un po' spaventato.
Ed ora? Vado su, verso Cicogna che dista un paio d'ore di comodo sentiero, trovo un buco per dormire e domani si vedrà, oppure… …oppure, ancora un sorsetto di Gin e, ma sì, un ultimo tentativo. Mi tolgo lo zaino che comincia a pesarmi, lo lascio appoggiato al basso parapetto del ponte e risalgo alleggerito il sentiero che avevo fatto in discesa.

Dopo alcuni minuti di salita trovo, sulla destra, una vaga traccia che mi era sfuggita, nascosta tra le felci. La seguo un poco, è una buona traccia, c'è anche qualche "opera dei nani". Torno a sperare. Decido che vale la pena di provarci ancora. Scendo di corsa a prendere lo zaino e mi gioco quest'ultima carta. Sul sentiero.
Fantastico, sto penetrando in Val Grande! Ci sono perfino delle corde metalliche in punti esposti, gradini di pietra, precari ponticelli fatti con vecchi tronchi, qualche passaggio da brivido. Laggiù il fiume rumoreggia e grida vendetta. Il sentiero passa come può sulla costa ripida e sdrucciolevole, con docce sotto le cascate, guadi, tratti a strapiombo, c'è anche una scala di ferro… vado!

E' emozionante. L'amata sta cedendo o sarà un nuovo inganno? Ancora furioso, si fa sempre sentire il Rio di Valgrande, a volte lontano, altre vicino. Il cielo è ora sereno ma il sole è sparito da un pezzo tra le alte rocce. Sono stanco e vorrei fermarmi, la gola è oscura, umida e scoscesa: non vedo posti accettabili. Sono quasi le otto, appena posso mi fermo. Il fiume ora ringhia vicinissimo.

Primo bivacco

Ho trovato il posto. Non è l'ideale ma è bello e proprio in riva al torrente. Vado subito a lavarmi in una splendida pozza e poi penso al resto. Mi sono immerso nudo nel torrente: neve liquida! Ma mi ha ridato energia. Mi sono reso conto della vastità di questa solitudine quando, spogliandomi, ho pensato all'assurdità del mio pudore. Il fragore rabbioso delle acque accentua le paure. Accendo un bel fuoco proprio sul greto, a ridosso di un grande macigno. Il posto è buono, se non piove. Mi sento pulito, contento e solo.

Solo.

Per assurdo la mia maggior preoccupazione è che arrivi qualcuno. Posso stare tranquillo! Mangio abbondantemente e mi infilo nel sacco a pelo. Il fuoco ora arde vivace, scende la notte e penso… …chissà dove dormirò domani, chissà gli altri, chissà a cosa stanno pensando… …lascio andare i miei pensieri e non scrivo più.

Secondo giorno

Alba sul greto del fiume.

Notte felice sotto il cielo stellato, come compagno il rumore ossessivo dell'acqua tutto attorno, che riempie ma non cancella il silenzio.

Ho faticato un po' a prendere sonno accanto al caldo fuoco, con lo sguardo ed i pensieri nell'oscura volta notturna.
Quante cose si muovono nel cielo, se lo fissi a lungo!
La luna, frettolosa visitatrice, è passata abbagliante tra le rupi.
Poi i pianeti.
I satelliti.
Gli aerei.
Infine il cielo, tutto, lentamente si muove.

Come dopo una notte d'amore, mi sveglio incredulo di poter passare ancora un'intera giornata nella mia valle.
Indugio nel sacco a pelo, indolenzito e pieno di piacevoli dolorini che mi ricordano la giornata di ieri e le sue avventure.
Fatico a descrivere ciò che provo.
Credo che, così immersi nella natura e nella solitudine, i nostri pensieri perdano quella struttura che diamo loro per poterli condividere con gli altri, forse si dissolvono o forse mutano di forma, restano sensazioni istintive ed immediate, quasi indescrivibili.

Mi decido infine e, dopo un parsimonioso lavaggio nell'acqua gelida ed una specie di colazione, riparto.
Mi addentro nel profondo della valle come un esploratore nella giungla.

Orfalecchio

Dopo una mezz'ora di cammino, raramente rassicurato da qualche segno sbiadito di vernice gialla ed eccomi di fronte ad un'altra memorabile ed inspiegabile opera dei nani di questi posti.

Orfalecchio, luogo di misteri.

Una muraglia di enormi pietre, alta almeno cinque metri, affianca il sentiero.
Una primitiva scala di pietre sporgenti invita a salire al grande terrapieno sul quale, tra i rovi e le erbacce, si perde ogni segno del passaggio.

Tornato giù, mi soffermo ad esaminare altre interessanti tracce di vita passata.
Un riparo sotto una roccia è reso adatto al bivacco da muri a secco e da una specie di focolare. All'interno un tavolaccio, delle sedie rudimentali, alcune pentole annerite, un giaciglio di foglie.
Poco più in là, dentro una caverna dall'aspetto neolitico, ci sono evidenti i resti del passaggio di uomini e di animali.

Quasi incredibile, in questo tuffo nelle civiltà sepolte, appare il segno di lavori recenti: addirittura una casa in fase d'ultimazione. E' costruita sfruttando i ruderi di vecchie baite, con il tetto e gli infissi nuovi e solidi.
Chissà da chi, chissà perché.

Tra le foglie, la suola staccata di un vecchio scarpone, storie perdute.

Dopo Orfalecchio, che si abbandona tenendosi bassi nel bosco, inizia un saliscendi faticoso ed il sentiero diviene esiguo ed incerto.
Un passaggio su delle rocce viscide mi fa rimpiangere le opere di sostegno che ora non si trovano più.

Le inaspettate difficoltà, per fortuna non insormontabili, mi tolgono la baldanza. Dopo il largo guado del torrente Piana fatico alquanto a rintracciare la via.
Una lunga ricerca, un po' più su, un po' più giù, tra sterpi e massi, finalmente ecco un "ometto" di sassi, costruito da un'anima pietosa che m'indica un passaggio impercettibile.

Più avanti ancora un pezzo di corda metallica penzoloni, è inutile ma è un sicuro indice che sono sulla strada giusta.
Salite estenuanti, ripide discese, afa pesante.
Anelo alle creste rocciose.

Faccio sosta su un dosso alto sul fiume, dove c'è un bel posto da bivacco presso i resti di un'antica teleferica.
Mi sovrastano rocce inaccessibili.

Bevo avidamente del latte condensato sciolto in mezza borraccia d'acqua. Come un latte materno m'infonde energia e fiducia.
Mi sento solo ma non in proporzione alla distanza.
Non ci sono gradazioni spaziali per la solitudine, il canto di qualche uccello mi dà l'illusione del vociare di donne e bambini al parco cittadino.

Stando alla cartina, ora dovrei scendere all'Arca, località dove vedo segnato un guado. Il fragore del fiume che scorre almeno duecento metri più sotto, mi preoccupa sempre.
Vedremo.

Scendo prudente e circospetto affidandomi, nei punti difficili, a quelli che sembrano benevoli aiuti di un'impalpabile schiera d'elfi silvani: radici scoperte che fanno da ponte o da provvidenziale appiglio, alberi caduti nei punti giusti, gradini di terra e fiori. Ormai il cammino s'indovina grazie a questi piccoli segni.

Seguo alcune illusioni di tracce fin sotto un grande dirupo roccioso dove spariscono del tutto. Torno indietro per qualche minuto e scopro una via più evidente che scende ripida verso il Rio di Val Grande che urla indiavolato e biancheggia tra le foglie.
Come passerò, non sarà troppo in piena?

Ore 11: al guado dell'Arca

Sono al fiume.
Tutto come temevo.
Non un segno, non un passaggio, niente!
Risalgo tra giganteschi massi fino all'ingresso di una forra spettacolare e terribile. Il fiume esce, rapido e profondo, da un passaggio tra due pareti di roccia verticali alte decine di metri.
Impenetrabile.

Nelle vicinanze trovo una bella grotta che serve a qualche intrepido pescatore per ripararsi o per passare la notte.
Nell'antro oscuro alcuni teli di nylon stesi a terra ed altri sospesi con dei bastoni creano uno spazio asciutto, riparato dallo sgocciolare della volta.

Vicino all'apertura dell'ingresso ammiro i resti di un falò protetto dai sassi, quasi un caminetto.
Ci sono anche delle confezioni di cibo abbandonate di recente: un pacchetto di piadine romagnole, bustine di zucchero, tonno in scatola.

Dopo un'attenta visita a questa strana casa mi rimetto alla ricerca del passaggio: non trovo niente.
Provo più a valle ma niente.
Ogni speranza di attraversare è resa vana in qualche punto da un passaggio impossibile. Magari per poco, ma impossibile.
La corrente è troppo impetuosa tra due massi vicini: il salto sarebbe rischioso.
L'acqua è troppo profonda e le pietre sono troppo scivolose dove il fiume è più calmo: sarebbe un bagno sicuro.

E' il momento più critico da quando ero al Ponte di Velina. Che fare?
Proverò con un ponte!

Ore 13: sulla sponda sinistra

Ce l'ho fatta!
Ho trascinato alcuni grossi tronchi portati da recenti piene e sono riuscito, con un po' di fortuna, a gettarne tre appoggiandoli a due macigni abbastanza vicini. Sotto scorre impetuoso un getto d'acqua ribollente.
Per prudenza lascio lo zaino sulla riva e passo con un brivido.
Mi inoltro sulla riva sinistra per scoprire il sentiero ma presto le mie rinate speranze ricevono un duro colpo.

Soltanto vaghi segni, nessuna certezza.
Sterpi, rami, foglie secche, rocce e burroni.
Decido di tornare a prendere lo zaino, di mangiare qualcosa per rinfrancarmi e poi di riprovare. La strada per In la Piana, dove vorrei almeno arrivare per sera, è ancora lunga, non posso perdere altro tempo.
Nuvole in cielo… ci mancherebbe la pioggia. Sono piuttosto preoccupato e depresso.

Attraverso di nuovo il mio ponte di fortuna con lo zaino in spalla e due passi da funambolo ubriaco.
Lo spavento mi fa prendere una decisione: non passerò più punti critici che potrebbero precludermi la ritirata. Infatti, ormai a questo comincio a pensare con angoscia, a dover rifare la lunga ed incerta via, con la fretta del ritorno, per giungere a Cicogna, avamposto della civiltà.

Ritrovo la traccia, esigua ma probabile ed un po' di fiducia.
Proprio sul cammino prende il sole un magnifico esemplare di vipera, proseguo lasciandola in pace.

Provo a salire di più.

Mi isso a fatica per tracce di capre più in alto possibile. Dovunque rocce e strapiombi da capogiro.
Scendo cercando ancora, ma dopo ogni illusione torno indietro col sapore amaro della sconfitta.
Forse ho trovato, ma presto c'è un passaggio su rocce esposte e mi ricordo l'impegno di non rischiare più.

Non passo.

Poco sotto il sentiero riappare, lo seguo, sparisce…mi fa rabbia, dove diavolo andrà a finire?
Ruderi nel bosco, grossi muri… ma che cavolo li hanno fatti a fare, se non c'è il sentiero?
Comincio a sragionare.
Salire e scendere nel ripido bosco mi ha stancato troppo, sono sfiduciato.

Ore 15,45: m'arrendo.

Sono sceso, sempre cercando, fino a trovarmi ancora in riva al fiume che rumoreggia trionfante.
Non vedo alternative, mi resta appena il tempo per tornare e sono scoraggiato.
E' il momento di cedere le armi.

Ho la bocca asciutta ed il cuore pesante: la resa mi è più gravosa se penso a tutte le volte che ho combattuto e rischiato per niente.
Attraverso per l'ultima volta l'inutile passerella, due passi malfermi sui tronchi e sotto il vigliacco torrente.

Mi siedo un attimo su un masso sicuro per tirare il fiato e scrivere due righe. Guardo ancora l'altra riva, le rocce scoscese, i canaloni pietrosi, i boschi abbarbicati. Nemmeno da qui riesco ad indovinare da dove si possa passare.

Vorrei che arrivasse qualcuno e mi dicesse:
-Vieni, dammi la mano che ti guido io!-
Da un fondo smarrito della mia memoria riaffiora un'antica poesia, che recitavo da bambino, quasi una preghiera:


CAMMINA IL BIMBO

SULLA LUNGA STRADA,

SOLO SOLETTO

E NON SA DOVE VADA.

LUNGA E' LA STRADA,

LARGA LA CAMPAGNA,

UN ANGELO LO VEDE

E L'ACCOMPAGNA.


Chissà se mai tornerò in quest'angolo del mondo selvaggio e sperduto.

Sera, nella gola dell'Arca.

Sono ancora qui!

Stato di beatitudine perfetta.

L'amarezza di qualche ora fa è passata dopo un po' di riposo.
L'idea che potesse passare qualcuno e mostrami la via mi è parsa ad un tratto possibile. Perché non fermarmi qui ed aspettare senza far nulla? Male che vada dormirò nella grotta.

Mi sono lavato da capo a piedi, col sapone, nell'acqua non più nemica ed ora sono steso su un sassone, comodo e fresco, appoggiato allo zaino. Mangio fichi secchi e bevo l'ultimo Gin.

Nella grotta ho già acceso un gran fuoco, che spero asciughi l'ambiente ed allontani gli insetti e gli insettoni (una specie di nere mantidi) che ho visto camminare sul pavimento.

Il cielo minaccia un po' di pioggia, faccia ciò che gli pare!
Mi attira l'idea di dormire in una grotta anche se non mi sembra il posto ideale per viverci: strana gente gli eremiti.
Per cena mi farò la piadina abbrustolita col formaggio, un lusso.

Sto qui ed aspetto un Godot, che forse spero non arrivi più.
Solitudine assoluta.
Penso.

Penso, forse per la prima volta in quest'avventura, con nostalgia agli altri lontani, alla famiglia, a cose che non ho voglia di scrivere.
Penso e non penso.

Osservo con occhi nuovi ciò che mi circonda.
Osservo gli enormi macigni, caduti dalle pareti a strapiombo chissà con quanto fragore, chissà quanto tempo fa.
Ma sono tranquillo. I tempi geologici non mi spaventano.
Guardo rappacificato le rocce che incombono sull'altra sponda e che mi hanno respinto come una formichina smarrita.

Penso che avrei potuto anche morire lassù, solo e terribilmente cosciente… un breve dolore e poi il silenzio. Qualche altra formichina si sarebbe agitata un poco, lontano da qui e poi il silenzio.

Terzo giorno

Verbania, alla stazione.

Riprendo a scrivere, seduto al bar della stazione.
Ho davanti una birra gigante ed una mezz'ora, prima dell'arrivo del mio treno, per raccontare il mio ritorno dall'incubo dell'Arca.

Scrivo contento perché questa gita, che sembrava destinata ad essere ricordata come avventurosa ma soprattutto come aspra, faticosa ed anche amara, ha avuto un finale dolce ed inaspettato.
Torno con la mente al pomeriggio di ieri, a quell'attesa illusoria, a quella beata rassegnazione.

Naturalmente non è passato nessuno.

Dopo una notte piovosa ed un sonno agitato nell'oscuro ventre della caverna, la luce grigia dell'alba mi ha consentito finalmente di uscire.
Con minor senso dell'avventura ho ripercorso il vago sentiero fino al Ponte di Velina. Di qui ho imboccato la ripida mulattiera che porta a Cicogna con una lunga traversata nel bosco.

Ho incontrato le prime baite del Corte di Velina in desolante abbandono e, poco dopo, inaspettatamente in tanta solitudine, degli esseri umani.
Quattro giovani stavano in una baita ben sistemata, con davanti una rigogliosa camelia.

Hanno risposto appena al mio saluto e mi hanno scrutato con sospetto.
Superato questo difficile approccio, sono venuto a sapere che da poco qualcuno aveva forzato la loro porta per rubare oggetti d'infimo valore. Incredibile ignoranza e
viltà.
Ben presto la diffidenza si è stemperata in una simpatica accoglienza e sono stato
invitato a bere un bicchiere in compagnia. Tra una fetta di salame ed un uovo sodo, graditi come un pasto regale, mi hanno svelato molti segreti della Valgrande, della
sua e loro storia.

I miei ospiti erano infatti figli o amici degli antichi abitatori del bel corte di Velina, di quella gente che ha resistito qui fino a pochi anni fa, curando con amore questa terra lontana.
Terra Madre, povera ma generosa, seno ormai spregiato.

Quando mi sono rimesso in cammino, mi hanno dato anche un consiglio prezioso, segnalandomi un sentiero, non riportato sulla carta della Kompass, che seguendo il mio amato ed odiato fiume, scende al Ponte Casletto e poi a Rovegro. Mi avrebbe risparmiato un bel pezzo di strada e molta fatica. Bastava tornare al Ponte di Velina e scendere a sinistra.
Mi sono fatto garantire più volte che non ci sarebbe stato alcun pericolo di perdersi (non l'avrei più sopportato!) e, dopo un cordiale arrivederci, sono tornato sui miei passi.

Ancora una volta ho attraversato il mitico ponte di pietra, porta del mistero della Valle, schiaffo all'ostile torrente.

Senza difficoltà ho trovato un passaggio bellissimo, a strapiombo sul fiume che ora è più mansueto.
Un sentiero inconfondibile passa sicuro tra rocce impossibili, pieno di ponticelli, scalini e corde di sicurezza.

Finalmente si raggiunge un piccolo sbarramento sul fiume che forma un lago di smeraldo. Da qui il percorso prosegue sopra una grossa conduttura dell'acqua che s'infila perfino in anguste gallerie, scavate nella roccia.
Si evita una bella fatica.

In un'ora di sogno ho raggiunto il Ponte Casletto e la strada carrozzabile.
Ripenso al lunghissimo giro dell'altro giorno, che avrei potuto evitare conoscendo questo sentiero, ma sono contento lo stesso.

La Val Grande mi lascia con un bacio sulla bocca!

Pierluigi, 02/07/2001