thuler.net
Ultima Thule. Il Luogo Ideale della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio. Come lo Shangri-la delle popolazioni Himalayane o la Valle Perduta dei Walser. Potrebbe essere anche solo la collina dietro casa. Ma per ognuno è il luogo dove si desidera tornare.
Noi veniamo di lì: thuler.

Indre Troms

Diario di una piccola avventura tra i monti ai bordi della Lapponia Norvegese

Sicuramente stamattina ho qualche vago dubbio. Dunque, riepiloghiamo. Giusto per autoconvincermi. Sono giunto in auto fin qui, oltre il 69° parallelo assieme a due amici, dopo aver risalito la Norvegia in sei giorni con cielo limpido e temperatura mite.

Chiaramente, in segno di benvenuto, il Grande Nord stamattina mi riserva un cielo plumbeo-violaceo, con nuvole basse e sferzate di vento freddo. Niente di promettente dunque al confine con la Finlandia, nel punto dove i miei compagni di viaggio mi devono ora ‘scaricare’ dalla vettura: loro a godersi una settimana d’ozio, saune e cenette a base di salmone; io, da solo, lungo gli isolati, per non dire desertici 141 km del Troms Border Trail. Scelte di vita. Mi ripescheranno tra 6 giorni da qualche altra parte. Forse.

L’idea di fare un sentiero potenzialmente in solitaria, su terreno isolato, senza strade, paesi, case e qualsivoglia traccia umana, da tempo attirava le mie fantasie di modesto frequentatore di montagna alpina, ma di certo ora il primo impatto con la realtà è ben diverso dalla fantasia: sta di fatto che mi trovo al bordo della statale E08 (peraltro deserta pure quella, striscia grigia immersa nella tundra), attorno ai 600 mt di quota, il mio zaino con scorte di cibo per 7 gg (lungo il tragitto nessuna possibilità di approvvigionamento in assoluto) e i miei bravi 141 km di montagne davanti.

La strada ora è vuota, gli amici già partiti, forse bisogna proprio andare. E andiamo.

PRIMO GIORNO: via Gåldavuopmi, la valle dell’oro

Galgujav’ri–Gappohytta 28 km

Ovviamente la prima tappa è la più bastarda: in realtà si tratta di due tappe di 14 km ciascuna unite: dato che i giorni a mia disposizione sono solo 6 e non si accordano bene con gli 8 previsti dal manuale, ho dovuto compiere dei piccoli sacrifici in merito.

Del resto mi aspetto dei sentieri accessibili e con poco dislivello, per cui 28 km appaiono comunque come qualcosa di fattibile, con uno zaino di circa 20 kg. Bando ai pensieri e andiamo.. penetro così con passo deciso nella coltre nebbiosa davanti a me, su un terreno muschio-lichene-erba, tipico dei 600m di quota a quella latitudine (la vegetazione ad alto fusto finisce verso i 500 m) puntando verso il primo passo a 900 mt, qualche km in direzione ovest.

Pochi minuti e la strada asfaltata dietro di me è gia lontana, inghiottita dalla natura con i suoi laghi e laghetti che si moltiplicano alla vista mentre prendo quota. La visione mi da fiducia e con vigore raggiungo il primo passo in 1 ora e 30’. A 900 mt di quota il paesaggio appare simile a quello dei 2800-3000 delle nostre Alpi in agosto: roccia, pietraia, nevai, ghiacciai, verde praticamente sparito.

Una grandiosa sorpresa mi attende: il cielo si apre in un azzurro terso e nitido, il vento si placa, la temperatura è mite e di fronte a me si scopre un altipiano enorme, roccioso, costellato di laghi. All’orizzonte, lontanissima, una catena di montagne parzialmente innevata.

Un momento, ma quelle montagne… Un sospetto si impadronisce di me ed estraggo le mappe (costantemente appese al collo per ogni evenienza, fatte appositamente plastificare in guisa antipioggia) ed ho l’immediata conferma: domattina dovrò valicare un passo tra quella catena di montagne, e stasera dormirò praticamente appena al di sotto di esse: ora appaion solo come un lontanissimo orizzonte! Eppure il piano di marcia parla chiaro.

Ma anziché preoccuparmi della distanza vengo subito rapito da quelle profondità sconfinate e dal fascino delle traversate.. “questi spazi, le eterne traversate, il lento e costante incedere del passo.. altro che la salita della cima che si trova sotto il naso delle mie scampagnate alpine in Italia!” Il silenzio è totale, opprimente, rotto da un saltuario fischio acuto. Sarà il verso delle renne? Non credo. Penso al verso del camoscio, peraltro orribile rispetto alla grazia dell’animale e mi auguro qualcosa di meglio.

Scendo lentamente nella valle che ho davanti e le renne fanno la loro prima apparizione. Sono tantissime! Decine, anzi centinaia! Chiaramente fanno le ‘fighette’, un po’ come i camosci, non si avvicinano mai a meno di qualche decina di metri (come non detto per il verso: è un bell’ibrido tra il maiale e la rana!).

Non faccio tempo a distogliere il pensiero che sotto di me si apre il paradiso: una ‘Valle dell’Eden’, o meglio Gåldavuopmi, valle enorme, con tanto di vasto lago azzurrissimo, circondato da bosco e muschi verdissimi a quota 400mt, con in mezzo un puntino nero, Gåldahytta, il primo ristoro per la notte dell’itinerario. Corro giù entusiasta, ma le distanze qui sono enormi e ci impiego un’ora piena. Gåldahytta si apre con la chiavetta universale consegnatami ad Oslo (magia! Apre più di 300 rifugi incustoditi!) e, sorpresa, al suo interno appare più accogliente degli alberghi tanto amati dai miei amici!

Da un popolo civile come questo non mi potevo aspettare altro. Piccola sosta e via, altri 16 km: se va bene alle 18 sono a Gappohytta, la meta di oggi. Peccato che dopo il 20° km inizio ad accusare la giornata e il rendimento non è più quello della mattina. Così aggirato il lago Gåldajâvri risalgo a quota 700mt., dove inizia un altipiano impressionante di muschio ed erba con il sentiero che va interminabilmente su e giù.

Sempre solo, a parte l’incontro di un barbuto locale in direzione opposta presso il lago. Salgo e scendo per gli alvei di vari torrenti, che sono abbastanza in secca e si attraversano facilmente. I pochi acquitrini si evitano passando sopra assi di legno. Ottima idea. Quell’acqua stagnante avrebbe messo a dura prova lo scarpone. Cala la nebbia e comincio ad essere ‘brasato’. Gli ultimi 7 km pesano più che altro psicologicamente anche perché la nebbia cela la meta e mi fa vedere solo i continui saliscendi che devo percorrere lungo un costone. L’ambiente si fa aspro e alpino: roccette, laghetti, torrenti che spariscono e sbucano dalla roccia.

La temperatura è scesa attorno ai 10 gradi con vento moderato, non proprio piacevole. E’ il classico momento in cui si pensa di aver sbagliato strada. Impossibile, la traccia è una sola, ma si sa, non ci sono limiti alle elucubrazioni della mente. Infine, verso le sette di sera, il cielo si apre e Gappohytta appare.

E’ occupata da un gruppo di 6 norvegesi due uomini e tre donne sulla quarantina, più un ragazzo pressoché muto. Si tratta della la famiglia Larsen ‘allargata’,una vera comunità rappresentativa di norvegesi tosti, partiti per una vera spedizione di pesca: anche loro per alcuni giorni si avventureranno per queste valli con le loro canne a procacciarsi cibo, sicuramente migliore del mio. Le mogli domani torneranno a casa, gli uomini proseguiranno.

Loro hanno gia mangiato da 2 ore, vedo resti di leccornie; la mia pasta liofilizzata ai funghi fa schifo, ma mangio tutto. Alle 20.30 addento il maccherone schifido. Due chiacchiere ancora e la palpebra si appesantisce. Fuori la luce è intensa, anche se la baita ora è avvolta da nebbia che rende il crepuscolo polare un lentissimo incedere a grigio piombo. Per quel momento già dormo. La tappa di domani è la più alpina.

SECONDO GIORNO: via Isdalen, la valle dei ghiacci

Gappohytta–Rostahytta 18km

La tirata della prima giornata (e lo stile di vita poco consono dei giorni precedenti) si è fatta sentire sulla seconda. Oggi solo 18 km, ma belli tosti.

Inizio a prendere confidenza con la vita della famiglia Larsen. Intanto scopro che i tre pescatori mi accompagneranno lungo l’intero itinerario: ognuno per la sua strada, con il proprio passo, ma la sera riuniti attorno allo stesso fuoco. Hanno proprio l’aria dei camminatori tosti. Intanto la mattina li osservo, mentre con calma celestiale si sorbiscono grandi fette di pane imburrato, piatti di riso e latte e aringhe con cipolla (tutto regolare da queste parti), mentre io soppeso col bilancino la mia razione di caffè, cioccolato e fetida dieta chimica.

Immagino il peso e le dimensioni dello zaino dei miei colleghi: “ma come fanno a portarsi tutta quella roba sulle spalle per 6 giorni? Ieri si sono fatti pure le omelette! Al diavolo, stasera gli faccio vedere cosa combino io coi pizzoccheri!” I compari sembrano comunque massicci, anche se alle 10 del mattino stanno ancora bivaccando di fronte ai cibi mentre io smanetto con lo zaino per farci stare di nuovo tutto. Beata Norvegia: questa gente ora ha 20 ore di luce al giorno, può permettersi di partire anche a mezzogiorno.

Io parto alle 10, non si sa mai. Fuori dalla baita giacciono due cani Husky, un piccolo e amichevole, uno grande e serioso. Accarezzo il piccolo. Più avanti mi avrebbero avvertito che il grande stacca le mani degli sconosciuti a morsi. La giornata, passate le prime brume appare ancora tersa e splendida, con quei 20 gradi secchi che rendono gioioso camminare.

Un brullo falsopiano, però ora circondato da picchi degni del ‘Signore Degli Anelli’ mi porta in breve a quota 1000mt, svelando un paesaggio alpino da favola: terreno lunare, monti a precipizio su di me, alcuni dalla cima piatta, altri a punta, da cui si calano piccoli ghiacciaietti che generano laghi e laghetti costellati da piccoli iceberg. E’ Isdalen. La valle dei ghiacci.

Penso come possa apparire questa valle in Inverno o Primavera! Qui appare il primo famigerato attraversamento di torrente. Fortunatamente l’acqua è bassa ed il letto molto largo; nonostante ciò incedo con cautela, per evitare bagni non desiderati. Proprio qui mi raggiungono i tre Larsen con i loro cani e, con fare indifferente, come se camminassero sull’acqua, mi superano quasi facendomi sentire la folata di vento del loro passaggio. ‘Hi! Nice weather today: we’ll go fishing somewhere!”; sorridono, e sono gia 100 mt avanti. Ma dann…! Osservo che i due Husky portano sul dorso un carico non indifferente! Cani portatori! Ti credo che questi si fanno i pranzi manco fosse l’Hilton!! Sospiro, con il mio carico, accorgendomi che le spalle mi dolgono un po’, che ho fame, e che è gia tardi. Che importa.

Sosta meritata ad Isdalen. Più avanti, una nuova valle paradisiaca si apre sotto di me: Rostadalen. Dall’alto appare come un vallone (20 x 10 km !!!) levigatissimo alla vista, fatto di sola erba e muschio di un verde brillante indescrivibile. Sinuoso, dolcemente arrotondato nelle sue curve, solcato in profondità solo presso il letto dei due fiumi che lo attraversano formando rughe verdescuro quasi mai illuminate dalla luce tagliente del sole obliquo.

Catturo dentro di me quella visione paradisiaca, primigenia, conscio che la macchina fotografica non sarà mai in grado di farlo altrettanto bene. Pieno di quella visione mi ci tuffo dentro, devo giungere nel suo cuore, 10 km più avanti, per arrivare a Rostahytta.

Ora mi tocca guadare il torrente, bello largo, niente sassi di ausilio.. è l’ora di togliere gli scarponi, rimboccarsi il resto ed assaggiare la temperatura dell’acqua! Niente male! Ma decisamente sopportabile con quella giornata di sole. Giungo a Rostahytta, vuota. I compari norvegesi non sono ancora arrivati, si sono soffermati a pescare da qualche parte. In compenso alla baita giungono due grassoni sudatissimi, che dopo essersi ‘sparati’ 2 hamburger per antipasto si fanno fritto il pesce appena pescato.

Anche i miei pizzoccheri (liofilizzati!) sfigurano di fronte cotanta scena! Loro mangiano e sudano. Forse non gradiscono il tepore che ho creato con la stufa prima che arrivassero. Difatti: le finestre vengono subito spalancate sui 10 gradi della sera fino a mezzanotte, giusto per vanificare l’ ‘effetto camino’ che avevo creato.

In compenso sono tipi molto gioviali, che amano raccontare dei loro consueti week-end allungati a Rostadalen, prima di tornare al lavoro proprio ai piedi della valle incontaminata, 20 km piu in giù, dove compaiono le prime case ed ha sede la loro ditta familiare di essiccamento del pesce. Ogni commento mi sembra inopportuno

TERZO GIORNO: per Gassavakkejaorrit

Rostahytta-Dærtahytta 17km

Oggi è il giorno più rilassato. Solo 17 km, senza problemi di gambe e di spalle, entrato a regime.

Posso godermi la tappa e dilatare le 5ore e 30 di marcia in 7 o 8 cercando i posti più adatti per le foto, facendo qualche deviazione, cercando qualche cima, perché una giornata con un cielo così terso merita veramente di essere goduta.

Come di consueto ormai, parto per primo, mentre i Larsen ancora gioiscono delle loro delizie alimentari e i grassoni ronfano alla grande. Dopo 20 minuti ho gia i Larsen alle calcagna; dopo altri 10 minuti perdo la traccia e sono costretto a tornare indietro.

Un’ora circa a cercare il segnavia rosso, nascosto da un cespuglio! Chiaramente i Larsen da lì sono passati sicuri e ad occhi chiusi. Il sentiero riprende quota e giunge ad un altipiano a 800mt, Áslàtvárri, costellato di laghetti. Qui mi imbatto in una coppia di sposi finlandesi, perfettamente integrati con l’ambiente circostante. Appaiono come due giovani innamorati di 50 anni, ricolmi d’amore per loro stessi, per la vita e per la ‘loro’ natura.

Raccontano: “Siamo stati in Italia, sulle Alpi. Bellissime le Dolomiti! Ma, non c’è niente da fare, noi rimaniamo attaccati alla Nostra Natura, di questi posti amiamo l’infinito isolamento. E poi, ci portiamo appresso la tenda, non dormiamo nei rifugi: sono troppo affollati per noi”. Certo, comprensibile: per un nordico cinque persone scarse sono già troppe per una montagna.

La perla di oggi è costituita da due laghi di un azzurro mai visto con tanto di nevaio che vi si tuffa dentro. E’ qui che ritrovo i Larsen con le loro canne da pesca. Il posto merita una lunga sosta. Guardando attorno ci si accorge che il paesaggio in soli due giorni sta cambiando: mi sono lasciato alle spalle le cime alpine, le rocce a picco e i relativi anfiteatri per lasciare spazio a cime più brulle e arrotondate, di 1400 mt circa, più o meno tutte caratterizzate da pietraie.

Le pietraie: penso che nessuno ami in particolare camminarci sopra; personalmente non mi sono mai fatto grossi problemi, 500 mt di pietraie passano in fretta.. ma non avevo mai provato a spararmene 8 km di fila! Le spalle oggi sono sono ok, le gambe pure.. così hanno iniziato a lamentarsi i piedi. Raggiungo il passo, un 1000mt che faccio salire a 1100 con una piccola deviazione conquistando la facile cima sulla sinistra (senza nome sulla carta!! ti battezzo jtakasdtet).

Roccette e un nevaio per poter mirare una vista strepitosa aperta a raggiera per 100km circa in un cielo incredibilmente terso, inimmaginabile alle nostre latitudini: la catena alpina valicata ieri a Nord-Ovest, sconfinati rilevi degradanti a sud-est, fino alle regioni più isolate della Finlandia e della Svezia. L’orizzonte, lontanissimo da qui, appare uniformemente desertico e isolato. A sud, la direzione in cui procedo oggi, inizia il parco Ovre Dividalen, con altre montagne dalla forma più dolce. Tutto ciò è inebriante. Ma è ora di proseguire.

Sembra che ogni baita di questo itinerario sia appositamente adagiata al centro della propria “valle dell’Eden”, e che il tragitto vi giunga sempre dall’alto, al fine di gustarsi appieno la visione. Se a prima vista Dærtavaggi, la valle di arrivo, sembrava meno bella di Rostadalen, presto mi sono dovuto ricredere quando la vista si è aperta completamente a sud-ovest: una costellazione di enormi laghi azzurri che si snodano attraverso la valle.

Come di consueto, mi ci immergo e giungo in breve a Dærtahytta, trovando i Larsen già in fase digestiva. Constato che la pietraia ha fatto il suo danno: scarpone sinistro smagliato internamente!! Sono costretto a riparare il danno con i mezzi di fortuna che ho dietro, il nastro adesivo per le bendature, ma funziona benissimo. Mentre cucino i Larsen decidono di uscire per una battuta di pesca serale (instancabili!); torneranno dopo un’ora a mani vuote e infreddoliti da un improvviso vento gelido che si è alzato dopo tre giorni di clima estivo.

Memore di racconti di nevicate ferragostane penso a cosa potrebbe accadere in un posto come quello se il tempo cambia improvvisamente. Domani ci sarà da divertirsi!

QUARTO GIORNO: per Skaktadalen, e poi al cospetto di Jerta

Dærtahytta-Dividalshytta 25km

Oggi è una mazzata. 25 km, due passi alpini, parecchi su e giù, un guado e varie paludi, il tutto condito da raffiche di vento gelido. Ma andiamo con ordine. Alle 5 del mattino apro gli occhi con il sole che mi bacia la fronte, mettendo in fuga gli incubi delle bufere di neve, ma all’ora di mettersi in marcia il clima è già mutato.

Nubi nere si muovono rapidissime nel cielo, trasportate da un vento freddo che gia nei primi metri di cammino fa sentire la sua presenza a bassa quota sferzandomi con raffiche intense, di quelle da far perdere talvolta l’equilibrio. Persino gli indomiti Larsen ne rimangono intimoriti sulla soglia della baita, il che è tutto dire. “It’s a cold wind” sentenzia Oddijan; “andiamo bene”, rispondo.

I primi 15 km sono costituiti da un continuo saliscendi attraverso tre magiche valli: la continuazione di Dærtavaggi, con i suoi enormi laghi, l’altopiano di Dáĉĉavaggi con le sue paludi, e la lunga valle Skáktárdalen solcata da un largo fiume, lo Skáktárjokka, che lungo l’omonima valle si allarga e si restringe in un infinito numero di forme sinuose; un’enorme creatura frattale che ,vista dall’alto, lascia ammutoliti di ammirazione.

Affronto la prima valle con passo deciso e determinazione, (riuscendo a star dietro ai Larsen!), nemmeno tanto disturbato dal vento insistente, e soddisfatto di poter utilizzare finalmente la mia giacca invernale, che fino a quel momento si era rivelata un fardello inutile.

Giungo sull’altipiano, un’enorme distesa brulla di muschi dal variegato colore a circa 700m,t ed il vento prende ulteriore forza. Sole e nuvole in rapido movimento disegnano sulla distesa ombre strane in moto, che mischiate agli intensi colori dei muschi assumono toni vagamente psichedelici.

Qui entro in contatto con una novità finora sottovalutata: gli acquitrini. A distanza sembrano un bel prato erboso ma, se non si sta attenti, in certi punti si sprofonda mezzo metro. Stavolta niente passerelle di legno.

Anche 20 cm sarebbero fatali per i miei martoriati scarponi riparati col nastro isolante e con questo clima vorrei evitare danni. Qui si rivelano essenziali gli amici bastoni: tastando il terreno ci sono punti in cui vanno giù come nel burro per mezzo metro, e altri vicinissimi in cui trovano la pietra della salvezza a pochi centimetri sotto il suolo. In questo punti l’andatura viene mostruosamente rallentata.

A quota 800 mt mi imbatto in due laghi fortemente increspati dal vento, di un colore grigio scuro che incute timore. Davanti a me si para un cumulo minaccioso di nube, quasi antropomorfo, che parla con la voce del vento, diventato ora fastidioso. Un segnavia mi rassicura ben poco dicendomi che mi devo dirigere direttamente nelle fauci di quel mostro.

In realtà quella nube fa da cappello a sua maestà Jerta, la vetta più dolomitica del percorso, presso cui dovrò passare più tardi. Qui incomincia la discesa verso la terza vallata: per la grazia divina il vento inizia gradualmente a placarsi e la giornata improvvisamente tende di nuovo al bello nel giro di pochi minuti, per durare così miracolosamente fino a sera. Sono al settantesimo km.

Esattamente a metà.

Ed è proprio qui a metà che incontro i due viandanti che vengono esattamente per lo stesso percorso, con le stesse tappe ma in direzione opposta, i potenziali compagni di baita che si sarebbero sostituiti ai Larsen se avessi scelto il percorso al contrario.

E chi potevano essere se non due piacevolissime e simpaticissime giovani donne, con cui mi sono dovuto accontentare di una piacevole sosta di 10 minuti, piuttosto che di un viaggio di 6 giorni? Incredibile il loro stupore nel realizzare che sono italiano. Un po’ come se camminassi sulla Grigna e incontrassi un arabo venuto apposta da casa sua per andare al Rosalba. Procedo.

Sotto di me appare la terza valle, con il suo fiume sinuoso, largo 50 metri nel suo punto più stretto: li mi aspetta il prossimo guado e ritrovo i Larsen sconsolati per la magra battuta di pesca. Qui devo concedermi una lunga sosta e del cibo: vento, acquitrini e saliscendi mi hanno un po’ fiaccato. Mi trovo sotto Jerta, cima verde, irta e dolomitica. Mi aspetta la salita più ripida del tragitto, solo 600 mt. di dislivello, ma tosti. Mi insinuo tra Jerta e little Jerta, ormai liberi dalle minacciose nubi e maestosi, sebbene siano solo cime di 1400.

Qui roccia scura e pietraia dominano il paesaggio. Giunto al passo alpino si apre un altro enorme altipiano, leggermente degradante verso la Svezia. Qui la vista si perde a infinito: vedo circa 50-60 km di monti verso sud, senza intravedere nessuna traccia di civiltà. Io devo procedere a Ovest rimanendo in quota, sul costone sud-est di Little Jerta, veramente interminabile (anche la guida dei sentieri usa lo stesso termine!), per poter sboccare alla vista della valle Dividalen, la terminale valle dell’eden dove si adagia finalmente Dvidalshytta.

Finalmente il Bosco! E’ la prima valle dove passerò una notte in presenza di una vegetazione ad alto fusto. Infatti Dividalen scende fino a 300 mt di quota ed è completamente invasa da sempreverdi. Vederla dall’alto con il suo fiume sinuoso (stavolta niente laghi, incredibile!) da un’idea molto amazzonica.

E’Incredibile notare quanti diversi paesaggi si possono vedere in una sola giornata. Qui la vista è amplissima: intuisco a sud la punta dell’enorme lago allungato di Altevatnet, la mia meta finale di tutto il viaggio; dovrò giungere dopodomani alla punta opposta ora nascosta dall’ultimo gruppo montuoso.

Ormai l’idea di superare catene montuose non spaventa più. Anzi, la sensazione è veramente strana: se pochi minuti prima non vedevo l’ora che finisse quell’eterno costone per arrivare alla meta, adesso, alla lontana intuizione geografica della fine del trek, già mi assale la nostalgia legata al termine di questo viaggio.

L’orografia davanti a me è cambiata ancora: ora è la volta di monti carsici, che mi ricordano vagamente i causses francesi: cime delle montagne fatte da larghi altipiani brulli, dirupi rocciosi ai bordi, verdissime valli rigogliose d’acqua sotto. Entro nel bosco e giungo a Dividalshytta, la baita più grande e più bella del percorso, occupata dai soliti Larsen, più madre con bimba di 10 anni, giunte per una via accessoria dal paese di Holt attraverso tutto il suggestivo canyon carsico di Dividalen, itinerario che si intreccia al mio, possibile via di fuga in caso di maltempo.

Il cielo si apre a sprazzi di azzurro e rivela il sole al tramonto mentre Oddijan Larsen unge di grasso i suoi scarponi, per poter scivolare a passo sicuro nel fango. Qualcosa mi dice che domani sarà una giornata bagnata.

QUINTO GIORNO: risalendo Anjajokha

Dividalshytta-Vuomahytta 20km

Ormai sono convinto che d’estate i norvegesi soffrano davvero il caldo, un po’ come gli italiani delle pianure in Agosto. Difficile a dirsi, eppure stamattina, aprendo gli occhi verso le 5 vedo svolazzare le tende all’aria.

Stavolta ho dormito in stanza con la signora e la bimba, ma anche loro non avevano rinunciato all’esigenza di stare a finestre aperte con 8 gradi fuori. Loro ovviamente senza sacco a pelo. Io sacco a pelo e piumino della baita sopra. “Nice weather today, we’ll go fishing on the river”, sentenziano i Larsen, come se gli altri giorni facessero altro.

In effetti il tempo sembra clemente: niente vento e qualche nuvola alta, un piacere dopo le raffiche di ieri. Oggi mi aspetta una tappa piuttosto tranquilla: i soliti 20 km, ma 15 pressoché in piano e tutti nel bosco, elemento nuovo per quel trekking. Quindi partenza rilassata, forse fin troppo, ma la tirata di ieri deve essere bilanciata da una ripresa lenta oggi.

Studio il bosco, cercandone le differenze con quelli alpini del mio paese. E’un bosco di betulle, a prima vista simile ai nostri ma con due novità. Innanzitutto il sottobosco, un morbido letto di muschio ed erba coloratissimo in cui il piede affonda di 5 cm, con un gradevole ‘effetto materasso.

Poi, un numero incredibile di alberi secchi, schiantati a terra o spezzati a metà: non morti così per caso, ma abbattuti dalla furia degli elementi. Non vorrei trovarmi in mezzo in quei momenti. Molti di essi hanno il tronco secco attorcigliato, come se fossero stati strizzati da mani di giganti.

Ieri sera ho visto foto di quei tronchi appese a Dividalshytta: decisamente rappresentano un fenomeno naturale o soprannaturale a me ignoto, ma sicuramente noto ai locali. Per entrare nella valle laterale di Anjajokha, che si addentra tra due monti carsici ci sono due possibilità: un guado improponibile, ed un ponte, che ovviamente allunga la strada di altri 2 km.

Inutile dire che scelgo il ponte. La scelta mi fa imbattere in una splendida cascata, con un balzo di 50 mt ed un numero indefinito di balconcini a strapiombo,in cui mi attardo a fare fotografie. E’ gia mezzogiorno e ho fatto solo 5 km. Oggi, tra deviazioni, soste e foto,la pigrizia regna sovrana; ma la pagherò tra non molto. Mi trovo ancora all’inizio della valle, davanti a 10 km di bosco, con ai lati le pareti di due monti carsici ed in fondo cime più alte, di tipica fattura alpina, con nevai e ghiacciai: li sotto si trova Vuomahytta, la meta di oggi.

Ma non appena mi muovo con passo deciso non vedo più davanti a me le cime alpine sullo sfondo, sostituite da un manto grigio uniforme dalla fattura familiare. Riconosco la struttura di quelle nuvole e concludo che 5 km più avanti sta venendo giù un’acqua simil-torrenziale.

Ed io ci sto andando dentro. 15 minuti pieni dedicati ad approntare me stesso e lo zaino in versione antipioggia, deciso a testare con ottimismo la tenuta all’acqua del mio nuovo sistema. La pioggia inizia lieve, ma ben presto diventa battente, costante, fitta e a gocce grosse. Mancheranno ancora 8-10 km.

La presenza del bosco ora diventa fastidiosa, per via delle fronde dei cespugli fradici che mi scaricano addosso acqua aggiuntiva. Il sistema isolante regge bene per un’ora, poi iniziano ad impregnarsi nell’ordine: pantaloni, cappello (goccia insistente che cade nell’occhio), la scarpa sinistra (riparata), la destra. Inoltre il coprizaino impermeabile salta via ogni 5 minuti (le imprecazioni!), costringendomi a buffe manovre.

Finalmente finisce il bosco e inizia il prato. Il sentiero sul prato è riconoscibilissimo: si è trasformato in un rigagnolo marrone. Io pure. E’ovvio, finora non ho mai incontrato biforcazioni del sentiero in tutto il tragitto, il punto giusto per trovarne una è adesso. Dove vado? Devo estrarre la cartina.

Quel lungo lavoro di plastificazione delle mappe che avevo fatto il giorno prima di partire si è rivelato utilissimo: sotto quell’acqua le avrei praticamente devastate definitivamente anche per una consultazione di pochi secondi. Basti pensare che mentre in quei secondi il foglio si rigava di innumerevoli rivoletti di acqua che si riversavano su di me a mo’ di annaffiatoio.

Ultimi 3 km. Marcia critica in salita verso quota 800, solo grigio attorno, finchè Vuomahytta appare in una conca indefinita presso un lago alpino immerso nelle nebbie. Anche i Larsen sono fradici (incedibile, più di me!) ed appena arrivati. Si sono attardati a pescare e l’acqua li ha presi alla sprovvista.

La stufa va già a pieno regime: non c’è maggior piacere che vedere una piccola comunità di persone che stende i propri vestiti fradici attorno ad una stufa rovente e che attorno al fuoco si sorbisce un caldo minestrone! Pochi minuti prima un po’ di fatica sotto la pioggia, ma ora una sensazione di piacere sotto la pelle.

Anche perché oggi è il 14 Agosto: penso alle folle ferragostane intasate sulle spiagge adriatiche che anelano al loro ghiacciolo, tra gavettoni, strilli di bambini, pallonate in faccia ai passanti. Io godo qui, col piatto fumante,lo sfrigolare della stufa, il battere della pioggia sul tetto e le renne fuori che brucano attorno alla baita, noncuranti del tempo.

Da Vuoma non c’è altra via di fuga verso la civiltà oltre a quella che giunge al fatidico 141° km, qualsiasi tempo faccia. Ma domani è un altro giorno. Ma anche stanotte con la pioggia devono dormire con la finestra aperta?

SESTO GIORNO: attraverso Gaskavàggi

Vuomahytta-Gaskahytta 20km

Quanto è bello addormentarsi con il ticchettare delle gocce sul tetto. Ma forse è ancora più bello svegliarsi con il sole radente che ti riscalda la faccia attraverso la finestra aperta, guardando fuori la magnifica valle alpina con il lago Vuomajàvri a due passi, oggi di un azzurro indescrivibile.

Cielo terso oggi, clima secco e fresco (12 gradi alle 9.00), colori accesissimi, cime rocciose sui 1500 mt tutt’attorno, ghiacciaietti incastonati un po’ ovunque. Pace e silenzio, si sta divinamente. Oggi è ferragosto. Spiego al sig. Larsen cosa accade in Italia oggi, con annesso bailame di auto, folla, clacson, 40 gradi etc. Lui guarda con l’aria rassicurata e felice dal suo essere nordico.

La tappa di oggi è facile e completamente alpina (fig.9): tutta sui 900-1000 mt in un ampio vallone tra cime alpine, e poi degradando lentamente attraverso Gaskavàggi fino alla sponda nord del lago Altevatnet. Sulla punta più a nord del lago sorge il primo borgo abitato dopo 140 km di cammino desolato. Mi gusto la giornata con calma: nonostante la lunga pietraia che devo attraversare, trovo tutto piacevole e appagante.

Ai due lati una continua successione di monti e anfiteatri rocciosi sui 1500 mt. La lieve brezza alpina fredda è piacevole, niente a che vedere con il tempo di ieri. In fondo è apparsa una nuova catena di monti, con parecchia neve. Sono tutti oltre il lago, da quelle parti si va verso Abisko, in Svezia, verso altri cammini. Là finisce il nodkalottruta e comincia il Kungsleden, il più rinomato e turistico (relativamente) trekking svedese.

Mi assale una sensazione di struggimento a pensare che non dovrò più attraversare quella catena. Ora andrei avanti per centinaia di km. Prima del previsto ecco comparire in basso il lago Altevatnet. Prima di scendere mi giro, saluto il vallone alpino, l’ultimo e con lui tutti gli altri che ho solcato in questi giorni. Arrivo a Gaskahytta incredibilmente presto, alle 15.30. Questa volta c’è il tempo per lavarsi direttamente presso il fiume.

I Larsen stanno già divorando pasta e fagioli. Io prima delle 18 non riesco ad addentare niente. I cani dormono, sembrano esausti. E’ l’occasione giusta per scambiare qualche parola con più calma con questi anomali compagni di viaggio, sempre presenti, cortesi, mai invadenti, di una civiltà estrema, così come quella di tutto questo popolo, che sa convivere con tutti senza quasi far sentire la propria presenza. Quasi mai visti lungo il sentiero, ma sempre pronti alla baita successiva a darmi il benvenuto con il fuoco acceso.

In realtà anche loro mi trovano strano: da svariati anni ad oggi non si è mai visto un italiano venuto apposta per fare quel sentiero: sui registri di viaggio del DNT non ne compare nemmeno uno! La serata scorre lieve.

La vallata del lago su si cui appoggia Gaskahytta è indubbiamente piacevole: non si vede ancora traccia umana, anche se 12 km a Nord Ovest, ai bordi del lago, si celano nel bosco alcune sparute abitazioni private in legno, a cui le cartine danno il nome della località di Innset.

Mi godo appieno la serata tra le betulle con vista lago, do un colpo di grazia alle cibarie, lasciando le scorte avanzate al rifugio e passo le ultime ore all’aperto, a ridosso della baita, a gustarmi un magnifico tramonto infuocato, regalo di congedo di Natura.

ALBA DEL SETTIMO GIORNO: epilogo

Gaskahytta – Innset 14 km

Che dire di questa ultima e rapida tappa, svolta alle prime luci del sole e conclusa già in prima mattinata, per raggiungere alle 9.00 del mattino la strada carrozzabile che avrebbe permesso agli amici di venirmi a recuperare, volgendo poi verso casa.

Una tappa completamente in piano, ultimata in 3 ore di marcia, fino alla punta del lago, un breve viaggio adatto per un graduale e non traumatico rientro alla quotidianità dell’uomo civilizzato.

Tre ore per vedere l’allontanarsi dell’ultima valle selvaggia, l’avvistamento della prima abitazione, il trasformarsi del sentiero in sterrato, la prima auto, il borgo. Innset: poche case private, nessun negozio: un ‘paese’ di certo non degno di questo appellativo, un posto che ai più apparirebbe come un minimo agglomerato disperso in una vallata selvaggia, ma che ai camminatori dell’Indre Troms appare come un segno chiaro: l’anticamera di passaggio per il ritorno al nostro mondo.

Degno di nota un gruppo di 10 renne, a meno di 1 km dalla prima casa, che mi hanno ‘accompagnato’ fino ai confini del loro mondo, precedendomi di alcuni metri, guardandomi, procedendo ancora, fino ai limiti della traccia.

Qui si sono voltate per guardarmi con fare amico prima di deviare definitivamente e correre sui monti alla destra, per godere appieno della libertà. Una libertà fittizia quella delle renne: in realtà il popolo Sami le lascia libere in estate per favorirne la riproduzione, per poi ridurle nuovamente in cattività pochi mesi dopo (sono tutte marchiate) ed usarle per la propria sussistenza, per gli scopi più disparati, dal cibo al traino.

Fittizia Libertà dunque per queste povere bestie. In fondo anche io ho goduto in questi giorni la mia libertà selvaggia per tornare alfine, non come le renne, ma consapevole e pienamente dotato di libero arbitrio, alla mia Vitalizia Cattività Sociale.

Itaka, 11/09/2002