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Ultima Thule. Il Luogo Ideale della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio. Come lo Shangri-la delle popolazioni Himalayane o la Valle Perduta dei Walser. Potrebbe essere anche solo la collina dietro casa. Ma per ognuno è il luogo dove si desidera tornare.
Noi veniamo di lì: thuler.

Passo del Fo’ e nuvole

A scuola non andavo bene. Quando tutto ti sta stretto, non sai bene cosa desiderare, quando anche la compagna di classe che ti dimostrava interesse si ritira, sai cosa t’importa dell’elettromagnetismo e di studiare le equazioni di terzo grado.

Il Canalino
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Gli unici gradi che mi frullavano per la testa erano quelli descritti nei vecchi libri su Cesare Maestri fregati dalla libreria paterna. Ma erano sogni in bianco e nero, come le foto a corredo dei volumi.

Avevo scelto elettrotecnica senza sapere bene perché, ci andava anche un mio compagno delle medie. Una scuola tecnica sembrava il preludio ad un buon posto, almeno nei primi anni ’70. Ma nessuno poteva prevedere l’irrompere di una adolescenza urbanizzata, ansie, entusiasmi e depressioni altalenanti. Che senso ha studiare ? E tutto il resto ?

Alla fine del secondo anno, quando capii che sarei stato bocciato, non dissi nulla a casa. Le conseguenze del fatto sarebbero state gravi, specie per uno studente da sempre considerato come uno che se l’era sempre cavata più che bene. Così una mattina presi lo zaino, ci legai sotto la tendina, rovistai in cucina per aggiungere qualche scatoletta, e via verso la stazione. Dovevo partire. Dovevo tornare dove c’era solo quiete, e dove nessuno di chiede prestazioni, né ti corregge un tuo compito in classe. Non lasciai nessun biglietto. Dovevo fare da solo.

A pomeriggio inoltrato montai la tenda sulla selletta del passo del Fò, deposi le poche cose per bene e, scostato il lembo color cachi, mi misi a guardare fuori, attendendo un po’ di conforto dalla magia del tramonto. La notte la trascorsi immerso in un sonno leggero, sotto le folate di un vento teso che increspava il telo. Per colazione, dopo un’alba livida, una mela e qualche fetta biscottata. Il vento aumentava. Avevo bisogno di acqua, così scesi sotto la capanna Monza a fare rifornimento. Nessuno in giro, neanche un cane. Qualche corvo gracchiante, in larghi giri sui torrioni calcarei. Dentro un senso di amarezza, autocommiserazione, timore. Erano decine di ore che non parlavo con nessuno, il silenzio mi avvolgeva.

Ed ecco il temporale. Nuvoloni gonfi e nerastri, sbrindellati, che si avventano sul passo risalendo dal Lecchese, scavalcandolo al volo. Io dentro la tendina, attaccato ai paletti di alluminio, circondato dalle sparate dei fulmini e da quel rombo di tuono vicino, che ti rimbomba a lungo nello stomaco.
Dopo un paio d’ore tutto era fradicio, il morale sotto terra, l’acqua che scorreva giù dalle fenditure percolava sotto e d’intorno al mio riparo. Preoccupato per le vicinissime scariche presi la giacca a vento, uscii di corsa e scesi di una trentina di metri, verso un piccolo baitello tirato su da una qualche associazione di montagna appena sotto la cappellina, dall’altro lato del passo. Mi accucciai nel vano della porta, al riparo dagli scrosci, sottovento, e guardavo la tenda sbatacchiare sotto le folate. Che ci facevo lì ? Perché me n’ero andato ? Nel cervello e nella pancia un’altalena di emozioni, ma senza gioia. La montagna che tanto amavo non mi trasmetteva un senso, non mi parlava. Mi guardava e sembrava aspettare una mia decisione. Almeno mi rispettava, non se ne usciva con giudizi.

Poi un timido sole tra le nuvole, e l’arrivo del bel tempo. Tutta la roba ad asciugare sul telo, fumante sotto i raggi benedetti. Ancora un tramonto, fiammeggiante, nella solitudine a due passi dallo sfumacchiare delle ciminiere laggiù a vicino al lago.

La mattina presto mi svegliò il tonfo degli scarponi di una comitiva che mi passava davanti a pochi metri, diretta all’attacco della ferrata poco distante. Con i capelli scarmigliati uscii all’aperto, le ossa rotte, in attesa del prossimo arrivo dalla luce. Un tipo si fermò, chiacchierammo un po’, mi chiese cosa ci facevo lì. Non ricordo bene cosa inventai, ma anche se capì che qualcosa non quadrava, non ne diede segno alcuno. Mi augurò buona giornata. E subito pensai a casa. Chissà come l’avevano presa. Forse mi stavano cercando coi cani. Se tornavo ne avrei prese un sacco ed una sporta. Chissà. La verità è che non ero contento di niente, mi dissi. Cominciai a smontare la tenda. E poi a casa mia discutevo sempre di questo e di quello. Mi avviai lungo il sentiero in discesa, pian piano. Avrei rifatto l’anno o, come garantiva mio padre, sarei andato a lavorare ? E già stavo scendendo a piedi i tornanti verso Calolzio.

Giunsi sotto casa la sera dopo tre giorni di assenza. Non so come salii le scale, e mi fermai davanti alla porta. Ascoltai a lungo. C’era mia madre al telefono, mio padre parlava con qualcuno. Meglio così, almeno in presenza di testimoni la tempesta sarebbe stata parziale. Suonai ed entrai, la porta era aperta. Nessuno disse nulla, solo un ciao dopo qualche minuto. Non se ne parlò per qualche giorno. Molto dopo mio padre mi confidò di striscio, quasi per caso : “ .. sai, volevo venire a prenderti, ma è stato meglio così …” E la montagna, che mi rimandava tutte le mie scelte, ancora una volta univa, senza parere.



Marco Simi

Marco Simi, 27/03/2002