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Ultima Thule. Il Luogo Ideale della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio. Come lo Shangri-la delle popolazioni Himalayane o la Valle Perduta dei Walser. Potrebbe essere anche solo la collina dietro casa. Ma per ognuno è il luogo dove si desidera tornare.
Noi veniamo di lì: thuler.

Cinghiali!!

Gli ispidi ungulati nel donchisciottesco immaginario adolescenziale di due frequentatori di media montagna.

Fu sul cucuzzolo
Accia Fu sul cucuzzolo
La comparsa di Sus Scrofa nei territori boschivi prealpini prossimi agli insediamenti umani e le conseguenti reazioni allarmistiche delle popolazioni del luogo è una controversa questione che periodicamente riemerge sui quotidiani. La vicenda assurge a dignità di stampa ogniqualvolta lo sventurato animale, in cerca delle sue ghiande e degli animaletti di cui cibarsi, grufolando allegramente per il bosco si imbatte – ohibò – in qualche strada trafficata, villetta o palazzo (ma chi mi ha mai introdotto in una regione così antropizzata?) e, trovandosi in ambiente estraneo, reagisce di conseguenza in base al suo naturale istinto.

Ma di tali questioni, in quei tempi di adolescenza spensierata, a noi ragazzi di fondo valle non interessava più di tanto. Era il fascino dell’animale libero e tutt’altro che domestico ad attrarci con impeto. Animali veri. Altro che il gatto castrato della vicina! E a pochi chilometri distanza, nel triangolo lariano, i cinghiali c’èrano veramente.

Esaltato e trafelato l’amico Andy mi mostrava lo stralcio di giornale a testimonianza, annunciando fiero: “abbiamo trovato cosa fare questa domenica: andiamo ad avvistare cinghiali!”. E ci credeva veramente, al punto che i coetanei, quelli che invece la domenica la passavano in discoteca, per convincerlo a desistere dall’ ardita e donchisciottesca impresa lo avevano invitato a fare un giro esplorativo al negozio di caccia e pesca sotto casa per reperire informazioni sulla pericolosità dell’animale.

“Che cosa vuoi fare tu scusa?” vociava l’anziana e corpulenta padrona del negozio di caccia. Andy, con la serenità e freschezza che da sempre lo contraddistingue rispondeva: “conoscere le abitudini del cinghiale, sapere se si spaventa con i rumori, se i contadini di Lecco lo catturano con le trappole che usano per le faine…”. “Ragazzo – ghignava un po’ indispettita la padrona –hai per caso un’idea precisa di quanto sia grosso un cinghiale?” E all’ indicazione del ragazzo, che con le mani abbozzava nell’aria le dimensioni di uno scoiattolo, la signora, visibilmente sempre più scocciata, senza proferire parola indicava un trofeo di una testa dell’animale in questione appeso al muro dietro alle sue spalle. Attimi di sorpresa ed ammirazione di fronte al simulacro. E poi la fatidica frase che rappresentò una proverbiale provocazione per la padrona del negozio: “Ma è sicura che quello non sia un bisonte?” Alla domanda seguì un sonoro e canzonatorio invito ad uscire dal negozio e ad avventurarci nel bosco con la fionda e la canna da pesca per affrontare il nostro cinghiale.

“Non ha capito niente”, bofonchiava Andy, visibilmente offeso, camminando a testa bassa sul marciapiede cittadino, mentre noi ridevamo di nascosto. Nemmeno noi capivamo. Forse ora inizio a capire. Il cinghiale era un’idea selvaggia nel nostro immaginario, la rivalsa verso un’immagine di animale cittadino addomesticato, pigramente sonnecchiante in attesa del cibo confezionato del padrone. Cinghiali nel triangolo lariano, che eseguivano razzie nei pollai o scavavano buche, che facevano franare terra a ridosso delle villette, erano risposte della natura che cercava disperatamente di riappropriarsi dei suoi territori, a due passi dal mondo degli uomini.

Una lotta impari. E noi eravamo dalla loro parte. Dovevamo vederli.

E così quella domenica d’inverno partimmo alla volta del Piano del Tivano. Alla base del sentiero iniziava già a nevicare: una neve stentata per via della rigida temperatura. Vento forte che sferzava i costoni brulli dei prati che risalgono verso il San Primo e, di lì a poco, anche una fitta nebbia che avrebbe oscurato la visibilità a poche decine di metri, vanificando l’avvistamento degli animali, ma aprendo spazi sconfinati all’immaginazione già suggestionata in partenza dall’avventura. Suggestioni vivacizzate dall’immaginazione, dalla fantasia: in fondo era questo che bastava alle nostre menti.

Non incontrammo cinghiali. A dire il vero non incontrammo nemmeno molte altre forme di vita su quel sentiero ghiacciato: una rana in agonia semi congelata sotto la neve, non più in grado di contrarsi, ed un alpinista stagionato in viaggio sul sentiero, che sfidava come noi il tempo sempre più avverso. Ci fu anche occasione per simpatico alterco di stampo alpinistico tra Andy ed il suddetto signore, in mezzo all’ormai sostenuta bufera di neve. La narrazione della scalata del Campanile Basso con sulle spalle un’anguria da parte dell’Angelino (padre di Andy) aveva suscitato come sempre non poca ilarità.

Rientrammo a valle. Era spettacolare vedere quei prati sferzati dal gelo: una zona fin troppo frequentata nelle calde giornate di sole e così deserta nell’irreale paesaggio di quella domenica. Questo bastava ad appagarci: i cinghiali forse erano stati cacciati indietro dall’uomo a colpi di fucile, ma per noi, quel giorno, la Natura aveva vinto.



Itaka

Itaka, 01/02/2003