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Ultima Thule. Il Luogo Ideale della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio. Come lo Shangri-la delle popolazioni Himalayane o la Valle Perduta dei Walser. Potrebbe essere anche solo la collina dietro casa. Ma per ognuno è il luogo dove si desidera tornare.
Noi veniamo di lì: thuler.

Arturo

Il tetto del Paradiso
Mangia Il tetto del Paradiso
La strada oggi asfaltata ma perennemente in lotta con le ripe del bosco sale decisa su per il vallone di Piossasco, allungandosi tra i castagni fitti fitti e finendo per annegare in una radura soliva con nel mezzo un pugno di case e una cappelletta dal gradino di losa mezzo consumato da pianti e miserie.

L'odore di erba e di fieno portato dal vento arriva a tratti tra i muri vecchi e umidi a nord, mentre il sole fatica a saltar fuori da dietro un cielo di cenere. Dai ballatoi le assi pendono sfondate, qualche porta aperta che dà su stalle basse al pian terreno; l'acqua si è mangiata i tetti e i le finestre come orbite vuote sibilano di buio e d'inquietudine.

Qui ci vivevano trenta famiglie, non saliva mai nessuno; il prete ogni tanto per le estreme unzioni, ma ultimamente arrivava solo per i funerali, in primavera.
Qui ci viveva Arturo. Arturo adesso vive a Torino. Con la zia. Arturo ha trent'anni, diciotto li ha passati in cantina, nella cantina di casa sua, coricato sul letto tra umidi e brividi di pianto.

Arturo è nato storto, con una testa enorme su un corpo rachitico e storpio. Non ha mai parlato, biascicava qualche sillaba quando l'hanno portato via nella luce, diceva spesso mam anche se il più delle volte era per mendicare un po' di pietà, perché tutte quelle frustate e poi quel bastone con il nodo a metà, gli facevano male e lui non sapeva il perché.

Lui era stato sempre li in quella stanza di muffa e verde come la sua pelle certi giorni, lui non lo sapeva di essere la vergogna della sua famiglia, non lo sapeva che se quell'autunno era venuta la grandine trinciando ogni cosa e masticando la segale allora era colpa sua, che se la vacca del Michele aveva partorito un vitello morto allora era colpa sua, che se al Silvio la moglie gli si era inspiegabilmente fatta gialla la colpa era sua, e che quindi era normale che scendesse giù quell'uomo alzando il bastone sulla testa scaraventandogli un odio che era una paura. Perché si ha paura dell'ignoto e si odia per ignoranza. Lui non lo sapeva di essere la maledizione della sua famiglia e l'agnello delle umane aberrazioni. Lui stava li tra la parete e il freddo del suolo sapendo che non c'era altra vita, che la vita era così di sporcizia e puzza e male, anche se da lontano una voglia di carezza e di calore saliva verso gli occhi e allora si stupiva a piangere muto. Ma che piangere diverso da quello del bastone.

L'Arturo l'ha trovato la zia, l'Arturo oggi ancora non parla, non dice niente ti guarda solo cercandoti dentro un perché che tu non hai, e quello sguardo trafigge l'indifferenza e il senso comune e non permette di nascondere che alle volte l'uomo si fa bestia e che nelle valli ci sono posti che l'umana pietà ancora non ha visitato, neanche vestita da prete.



Fu

Fu, 01/01/2000