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Ultima Thule. Il Luogo Ideale della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio. Come lo Shangri-la delle popolazioni Himalayane o la Valle Perduta dei Walser. Potrebbe essere anche solo la collina dietro casa. Ma per ognuno è il luogo dove si desidera tornare.
Noi veniamo di lì: thuler.

The crazy peak experience

Swiss alpine marathon

Fu
Davos, 28 luglio 2001

Sono le 8 di sera e la mia Swiss Alpine Marathon (SAM) è appena finita, dopo 78,5 km e oltre 11 ore di gara. Per tante, lunghe ore, ho desiderato arrivasse questo traguardo. Adesso invece, anche se stanco, vorrei poter esser di nuovo lassù, vicino al cielo, appena sotto la cima del Piz Kesch (3.427 metri); là ti senti libero, solo con il vento, e intorno a te la montagna che ti scruta solenne e imperturbabile di fronte alla tua vita di uomo e alle tue fatiche. E in quei momenti le tue gambe, pur dopo 50 km, ritrovano la bellezza di un gesto primitivo: correre.

Per un attimo, se chiudi gli occhi, sei falco che scruta dall’alto i corsi d’acqua originatisi dai ghiacci eterni che scorrono giù in fondo. Per un attimo, se guardi con il cuore, sei di nuovo camoscio mentre salti tra una pietra e l’altra , con una leggerezza che non finisce di stupirti. E sono sicuro che se saprò far rivivere questa emozione, il mio cuore non sarà mai stanco né vecchio….

Là ho trovato la bellezza di questa gara: una riscoperta della felicità che scaturisce del corpo che, dopo mesi passati seduto dietro ad una scrivania, si stupisce di riuscire ancora a fare ciò per cui è stato creato e che la vita di oggigiorno talvolta mortifica.
Correre, saltare, scendere, salire….quasi volare. Queste parole avranno un nuovo significato quando l’avrete finita.

LA CORSA

La Swiss Alpine Marathon è una ultramaratona di 78 km che si corre a Davos, ridente cittadina dell’Engadina, regione svizzera conosciuta come il “tetto d’Europa” per l’altezza dei suoi monti e dei suoi paesi.
L’organizzazione ha scelto di far disputare altre 5 gare insieme alla classica “ultra”: la maratona, la 30 km, la Lady Run riservata alle signore, la Mini Run per i bambini e il Nordic Walk per coloro che alla corsa preferiscono fare trekking in altura. In questo modo ai quasi 900 partenti della 78 km sono andati ad aggiungersi altri 1600 concorrenti, così da costituire un evento significativo anche a livello numerico.

Tutti coloro che vi hanno partecipato non potranno che spendere parole di elogio per un’organizzazione che ha badato ad ogni piccolo particolare e che non ha lasciato nulla al caso. Incredibile al riguardo la partecipazione della popolazione dei paesi attraversati dalla gara, che solo per orgoglio nazionale, non definisco superiore a quello mostrato dai volontari della Firenze-Faenza.

La lunghezza di questa “ultra” non è l’unico particolare che contribuisce a renderla una gara unica e impegnativa: ben più impressionanti sono infatti i 2.320 metri di dislivello positivo (e altrettanti di negativo) e il percorso che per ben 60 km abbandona le strade asfaltate per prendere sentieri, mulattiere, creste, ma anche pietraie, corsi d’acqua (!! Proprio così… ad un certo punto un ruscello era diventato il nostro sentiero…) e ghiaioni innevati.

LA SFIDA

Dopo aver lasciato Davos la corsa si snoda tra sentieri che attraversano boschi di conifere, gallerie, piccole cascate. I primi 30 km sono talmente belli che la fatica non riesce ad imporsi alla mia attenzione. Sembra di essere nel paese delle favole, scintillante di luce, di acqua, di verde. A differenza di tutte le maratone cui ho partecipato il percorso non è mai noioso, con i suoi continui saliscendi e ad ogni curva c’è ad attenderci un paesaggio ancora più meraviglioso di quello appena visto e che ti fa ringraziare di essere nato per potervi assistere.

Il passaggio sul viadotto di Wiesen è per tutti i corridori un momento di entusiasmo incredibile: la fatica è ancora lontana, l’entusiasmo della gente che si sporge dai finestrini del trenino rosso che percorre tutta l’Engadina riempie il cuore di coraggio e di incoscienza.
Ma è poco dopo il 30° km che inizia la salita che nel giro di 23 km ci porterà in cima al Keschütte Pass, il punto più alto della corsa, a 2.632 metri di altitudine.
I primi 8/9 km sono su asfalto, eppure il caldo e la pendenza cominciano a minare non solo le energie fisiche, ma soprattutto quelle mentali. Poi inizia il sentiero vero e proprio che si inerpica senza sosta fino in cima. Gli ultimi 10 km mi arrivano addosso all’improvviso, come un treno in corsa, travolgendo tutte le mie energie in pochi metri. Mio zio Nicola (Nicche per gli amici) che corre al mio fianco mi dà coraggio ma per me è già notte fonda. Il sentiero è reso bianco e scintillante dal sole, circondato da monti che ti guardano come se fossi un intruso venuto a disturbare la loro quiete: siamo entrati in un territorio nuovo, fatto di fatica e paura.
È questo il momento della verità. Il momento di guardarsi dentro per cercare tutta la forza di volontà che si possiede, soprattutto quella che non si sa di avere, ma che è là in fondo ad aspettare che diventiamo capaci di tirarla fuori. L’elicottero continua a far frullare le sue pale sopra di noi, trasportando senza sosta a valle persone che hanno deciso di ritirarsi.

Lassù dove siamo diretti non ci sono scorciatoie da prendere o aiuti che possiamo acquistare con un portafoglio rigonfio. Ognuno deve fare un grande tuffo nel proprio ignoto e scoprire da solo chi è veramente. Ma in fondo è proprio questa la grande sfida della vita: superare i nostri limiti, spingendoci verso luoghi in cui mai avremmo immaginato di poter arrivare.
Le gambe si trascinano un passo dopo l’altro, lentissime, aggrappate alla sola forza di volontà. Eppure anche andando così piano continuo a superare altri concorrenti. È una Caporetto. Sembriamo una manica di sbandati travolti dalla tentazione di lasciare perdere, ritirarsi, e che hanno gli occhi ora un po’ persi in un loro vuoto interiore, ora socchiusi per non vedere quanta salita c’è ancora davanti.

Non so quanto dura, potrei dire due, tre ore, forse più. Ma sono in cima. Ero certo di ritirarmi, ma il vento che fischia ad allargarmi le ali e la stretta di mano di un organizzatore che ci attende al rifugio mi ridanno le forze. Nicche ed io iniziamo a scendere, prima con le gambe un po’ rigide, poi, presi dalla bellezza della natura, saltando da una roccia all’altra con un’agilità che in pianura non abbiamo nemmeno quando siamo freschi.

È questo il Panorama Trail, il sentiero panoramico che corre tutto a 2.500 metri di altezza e che in 6 km ci porta allo Scalettapass (a quota 2.606 metri). Qui la natura è cambiata: non più benigna e ristoratrice come nei primi 30 km, non più fatta di sole e di fuoco come sulla salita al Keschütte Pass. Questo è il regno della solitudine, del vento, delle rocce, dell’acqua, della neve. Che bello non aver più a che fare con la regolarità del maratoneta: cambi di ritmo, pendenza, terreno. Scivolo sulla neve, salto sui sassi per superare ruscelli, affondo nel fango, scendo come un centometrista non appena la pendenza diventa tale da impedirmi di frenare. Laggiù in fondo alla valle c’è Durboden, 65° km, ultimo traguardo intermedio da raggiungere nel tempo massimo di 10 ore.

Manca poco meno di un’ora ma Nicche ed io stiamo volando adesso, come se avessimo appena iniziato a correre. Non ci può più fermare nessuno ormai. E anche se negli ultimi 13 km quei “buontemponi” degli organizzatori hanno pensato bene di inserire una salita di oltre 1 km, il finale ci sembra una passeggiata giusto per ammirare il paesaggio da cartolina e per scherzare fra di noi con l’ironia di due scampati ad un incidente aereo. Infine ecco laggiù Davos e la pista di atletica dove una folla di persone ti acclamano allo stesso modo che se avessi vinto (ma il tifo è stato incredibile lungo tutto il percorso).



Leonardo

Leonardo, 16/01/2003